Gesù Luce del mondo

Beato Vincenzo Romano Sacerdote

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 17/12/2011, 20:41

Advanced Member

Group:
Servo per Amore
Posts:
5,705

Status:


beatofnd

20 dicembre

Torre del Greco (NA), 3 giugno 1751 - 20 dicembre 1831



Nacque a Torre del Greco (Napoli) il 3 giugno 1751. Fu parroco per 33 anni (dal 1799 al 1831) dell’unica parrocchia della città di allora, la chiesa di Santa Croce oggi basilica pontificia. Studiò nel seminario diocesano di Napoli, ricevendo gli insegnamenti anche di sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Ordinato sacerdote il 10 giugno 1775, svolse il suo apostolato per 20 anni nella natia Torre del Greco. Il 15 giugno 1794 una terribile eruzione del Vesuvio distrusse quasi completamente la città, compresa la chiesa di Santa Croce, egli subito si dedicò alla difficile opera di ricostruzione materiale e morale sia della città che della chiesa, che volle più grande e più sicura. Alla ricerca di sempre nuovi metodi per avvicinare i fedeli, introdusse a Torre la cosiddetta “sciabica”, una strategia missionaria tesa ad avvicinare con il crocifisso in mano, capannelli di personeo singoli passanti, improvvisando sul momento una predicazione, salvo poi ad accompagnarli se consenzienti alla più vicina chiesa od oratorio per pregare insieme. Spesso si fece mediatore dei contrasti sorti fra gli armatori delle «coralline» e i marinai che affrontano i rischi e la fatica della pesca del corallo. Morì il 20 dicembre 1831 ed è stato beatificato il 17 novembre 1963. (Avvenire)

Martirologio Romano: A Torre del Greco presso Napoli, beato Vincenzo Romano, sacerdote, che, parroco, si dedicò con tutte le forze all’istruzione dei fanciulli e alla cura delle necessità di operai e pescatori.

Profilo biografico

Vincenzo Romano nacque il 3 giugno 1751 a Torre del Greco, città marinara al centro del Golfo di Napoli. I genitori, Nicola Romano e Grazia Rivieccio, di famiglia modesta, abitavano a Via Piscopia, in uno dei rioni più popolosi e vivaci della città.
Trascorse i primi anni della sua vita in un clima familiare assai religioso. Dopo aver superato difficili prove, a causa dell’elevato numero dei seminaristi e del clero locale, all’età di 14 anni fu ammesso al Seminario diocesano di Napoli, dove poté giovarsi della guida di uomini di cultura e di santità, dei consigli di Mariano Arciero, suo padre spirituale, e degli insegnamenti di Sant’Alfonso Maria de Liguori.
Ordinato sacerdote il 10 giugno 1775, si dedicò con zelo e amore alla celebrazione dei sacramenti, all’attività catechistica, all’assistenza dei poveri, degli ammalati e dei tanti marinai torresi che battevano i mari per lavoro, tanto da meritarsi l’appellativo di “celebre faticatore” e “operaio instancabile”.
Dal 1796 al 1831 resse, prima come economo curato e poi (dal 1799) come preposito, la Parrocchia di Santa Croce, che comprendeva allora l’intera città di Torre del Greco, la più popolata del territorio di Napoli.
La terribile eruzione del Vesuvio del 15 giugno 1794, che distrusse quasi completamente la città e la chiesa parrocchiale, mise in luce la sua fibra apostolica. Egli si dedicò subito alla difficile opera di ricostruzione materiale e spirituale della città e della chiesa, che volle riedificare più grande e più maestosa.
Morì il 20 dicembre 1831 dopo una lunga e penosa malattia, lasciando ai suoi sacerdoti come testamento spirituale l’impegno a vivere la carità fraterna.
Leone XIII, il 25 marzo 1895 dichiarava eroiche le virtù di Vincenzo Romano e Paolo VI, il 17 novembre 1963 lo proclamava Beato, additandolo al clero e specialmente ai parroci quale modello di vita apostolica.
Il suo corpo riposa nella Basilica Pontificia di Santa Croce, dove, l’11 novembre 1990 si è recato a venerarlo Giovanni Paolo II durante la sua visita pastorale alla Chiesa di Napoli.
La data di culto per la Chiesa universale è il 20 dicembre, mentre a Napoli e a Torre del Greco viene ricordato il 29 novembre.

Il ministero della Parola

Vincenzo Romano, pur essendo vissuto due secoli fa, ha ancora da insegnarci qualcosa di attuale e universale. Lo si può considerare un originale anticipatore di non poche intuizioni pastorali che avrebbero preso piede nella Chiesa del nostro tempo. Nel contesto di Torre del Greco, che non lascia quasi mai nel corso della vita, il egli progetta linee pastorali di azione con un raggio di estensione universale, che hanno le loro punte più avanzate nel “ministero della Parola” e nel “Vangelo della carità”.
Tra tutti i ministeri, quello che Vincenzo Romano considera prioritario è l’annuncio della parola di Dio, sul cui versante mette in atto sia le sue doti di scrittore (si conservano opuscoli catechistici e moltissimi testi di prediche) che di predicatore.
Predica ogni giorno alla sua gente e la domenica ben cinque volte. Il nipote, don Felice Romano, attesta che la sua continua predicazione «non arrecava tedio al popolo, perché sempre con piacere accorreva per sentire la voce del proprio pastore, il cui predicare era semplice, scritturale, patristico, pieno di sodi argomenti, senza apparato di gonfie parole, inutili, offensive, ma dirette ad istruire, a convertire i cuori».
Alla ricerca di strategie efficaci per l’evangelizzazione della gente, egli introduce anche a Torre la cosiddetta “sciabica”: un metodo pastorale missionario, che consisteva nello girare per le piazze e i crocicchi nei giorni festivi, col Crocifisso in mano, per proporre brevi prediche alle persone che raccoglieva e successivamente conduceva in una chiesa, in modo da completare l’opera iniziata per strada.
Dalla Parola alla liturgia. Vincenzo Romano si preoccupa che ai sacramenti si acceda con la dovuta preparazione e perché ci sia una partecipazione attiva alla celebrazione dell’Eucaristia, per la quale egli scrive il Modo pratico di ascoltare con frutto la S. Messa.
Con l’Eucaristia, Maria. Egli si impegna a fondo per introdurre la preghiera comunitaria del Rosario ogni sera. L’opuscolo che al riguardo stende per il popolo gli è particolarmente caro.
Ma tutta la sua vita è segnata dalla presenza della Vergine Immacolata, come punto costante di riferimento, di ispirazione e di speranza.

Il Vangelo della carità

Ciò che colpisce nell’infaticabile parroco torrese è l’apertura ai problemi umani e materiali della gente, di cui condivide gioie, dolori e speranze. Al di là della carità spicciola, infatti, Vincenzo Romano dimostra di essere un apostolo della carità sociale.
Egli si dedica all’educazione dei fanciulli e dei giovani nella sua casa, dove gratuitamente tiene lezioni per i vari ordini di scuola. Si impegna per la giusta composizione delle questioni economiche e sociali esistenti tra gli armatori delle coralline e i marinai che affrontano la fatica e i rischi della pesca, nonché tra i “cambisti” e gli armatori. Si interessa per riscattare i torresi caduti in schiavitù dei corsari barbareschi. Gira con infaticabile zelo, per «sorprendere i delinquenti», per distruggere addirittura i luoghi in cui la delinquenza comune e organizzata poteva attecchire per raduni e loschi affari.
Non abbandona mai il gregge durante gli scompigli politici, né durante le eruzioni del Vesuvio o le azioni carbonare. In questo senso egli è un uomo sempre sulla strada delle persone da salvare, che incontra dovunque, sulle pubbliche piazze, per le strade, le vaste campagne, la Marina, le case.
Così Vincenzo Romano è salito alla gloria degli altari, facendo il pastore della Parrocchia di Santa Croce per 35 anni e “struggendosi”, come egli diceva, per il popolo a lui affidato. E se i suoi contemporanei lo chiamavano già “il santo”, ciò avveniva non solo per la sua eccelsa dottrina, e neppure per i fatti straordinari o miracolosi a lui ascritti, bensì perché egli era, per essi, un segno di salvezza, era l’amore di Dio e dei fratelli che si manifestava come costante della sua vita e della sua azione.
Per questa sua amorosa sollecitudine, egli deve considerarsi anche modello di carità pastorale per i sacerdoti, in modo particolare per tutti i parroci desiderosi di vivere il loro ministero nell'ascolto della Parola che salva, nella fede dell’Eucaristia che santifica, nella sensibilità dell'amore che libera.

Autore: Giuseppe Falanga

--------------------------------------------------------------------------------


Nacque a Torre del Greco (NA) il 3 giugno 1751, città marinara posta al centro del Golfo di Napoli, alle falde del Vesuvio, celebre per la sviluppatissima arte del corallo e per il gran numero di addetti alla navigazione.
Parroco per 33 anni (dal 1799 al 1831) dell’unica parrocchia che abbracciava l’intera popolazione di allora, la chiesa di Santa Croce oggi Basilica Pontificia. Studiò nel seminario diocesano di Napoli, ricevendo gli insegnamenti anche di s. Alfonso Maria de’ Liguori.
Ordinato sacerdote il 10 giugno 1775, svolse il suo apostolato per 20 anni nella natia Torre del Greco, dedicandosi a tutte le attività religiose e sociali che questo popoloso paese, posto all’estremo confine della Diocesi napoletana richiedeva, era tanto il suo zelo che meritò l’appellativo di “celebre faticatore”, assisté in particolare i tanti marinai torresi che navigavano per il mondo e le loro famiglie sempre in trepida attesa del loro ritorno non sempre certo.
Il 15 giugno 1794 una terribile eruzione del Vesuvio distrusse quasi completamente la città, compresa la chiesa di S. Croce, egli subito si dedicò alla difficile opera di ricostruzione materiale e morale sia della città che della chiesa, che volle più grande e più sicura.
Il “ministero della parola” e il “Vangelo della carità” sono le basi della sua attività pastorale, aveva una predicazione fluente, non ampollosa, facile a capirsi e i fedeli accorrevano ma soprattutto seguivano e mettevano in pratica ciò che ascoltavano.
La generosa gente di Torre del Greco ha sempre risposto positivamente alle sollecitazioni dei loro parroci, oggi come allora, ed è stata sempre un serbatoio continuo di vocazioni sacerdotali.
Sollecitò la recita del s. Rosario serale, scrisse un libretto per poter seguire meglio la celebrazione della s. Messa.. Alla ricerca di sempre nuovi metodi per avvicinare i fedeli, egli introduce a Torre la cosiddetta “sciabica”, una strategia missionaria tesa ad avvicinare con il crocifisso in mano, capannelli di personeo singoli passanti, improvvisando sul momento una predicazione, salvo poi ad accompagnarli se consenzienti alla più vicina chiesa od oratorio per pregare insieme.
Tiene scuola per i bambini, divisi in classi, nella sua casa. Si fa mediatore dei contrasti sorti fra gli armatori delle ‘coralline’ ed i marinai che affrontano i rischi e la fatica della pesca del corallo.
Gira con infaticabile zelo a sorprendere covi di delinquenti per smorzare i loro loschi intenti malavitosi. Cerca di riscattare i torresi caduti in schiavitù dei corsari barbareschi.
Ebbe la soddisfazione di vedere ultimata nel 1827, la costruzione della maestosa basilica, che ha ricevuto la visita di Pio IX nel 1849 e di Giovanni Paolo II nel 1990.
Morì santamente il 20 dicembre 1831, faro di esempio sacerdotale e pastorale per i parroci di Napoli e d’Italia. Il suo corpo riposa in una artistica urna nella stessa Basilica di s. Croce.
E’ stato beatificato il 17 novembre 1963 da Paolo VI.
La data di culto per la Chiesa universale è il 20 dicembre, mentre a Napoli e a Torre del Greco viene ricordato il 29 novembre.

Autore: Antonio Borrelli

 
Top
view post Posted on 18/12/2012, 19:50

Advanced Member

Group:
Servo per Amore
Posts:
5,705

Status:


SALUTO DI PAOLO VI
AL NUOVO BEATO VINCENZO ROMANO
FULGIDO ESEMPIO DI SACERDOTE E PARROCO

Domenica, 17 novembre 1963



Signor Cardinale, Venerabili Fratelli, Diletti Figli,

Salutiamo il nuovo Beato Don Vincenzo Romano, e rallegriamoci nel Signore, che ci lascia contemplare come cittadino del cielo questo suo fedele ed esemplare seguace.

Abbiamo motivi particolari non pochi per essere lieti di questa glorificazione, oltre quello principale dell’onore che è così tributato al Signore e che ridonda sulla Chiesa intera, la quale vede l’albo dei suoi figli vittoriosi arricchirsi del nome d’un nuovo eletto.

Non possiamo tacere che uno di questi motivi è costituito dal fatto che questo Beato Romano era Napoletano! Di Torre del Greco, a dir vero; cioè nato e vissuto nella rinomata e ridente cittadina distante da Napoli poco più d’una decina di chilometri, quanto basta per dare agli abitanti di Torre del Greco una loro distinta fisionomia morale e popolare, e perciò una ragione di legittimo vanto di ascrivere nella propria anagrafe, anzi nella propria storia, questo suo raro ed ormai celebre figlio, nato appunto, vissuto e morto a Torre del Greco; ma quanto basta altresì per riconoscere alla popolosa borgata ed a questo illustre suo cittadino l’onore di appartenere all’arcidiocesi di Napoli, alla sua circoscrizione civile, alla sua cultura, alla sua educazione, alla sua vita.

Dobbiamo esprimere le Nostre felicitazioni al Signor Cardinale Arcivescovo di Napoli per questa beatificazione, dobbiamo estenderle al venerabile Clero ed ai fedeli tutti dell’arcidiocesi partenopea, ed a quelli della fertile e benedetta e famosa terra della Campania, perché la virtù riconosciuta in Vincenzo Romano non è solo strettamente a lui personale, ma è rappresentativa d’una spiritualità e d’un costume, che possiamo ben dire regionali. Questa considerazione del Beato nel quadro religioso e civile, in cui si svolse la sua vita, apre alla nostra mente varie questioni, sia generali che particolari, di grande interesse, alle quali risponderanno gli storici e gli agiografi, e alle quali appena accenniamo; quale sia, ad esempio, l’influsso dell’ambiente sulla personalità d’un santo, quanto questi riceva, assorba, modifichi ed esprima della mentalità popolare che lo circonda, e come perciò egli assurga a tipo caratteristico e nobile d’un’età e d’una popolazione. Che l’ambiente abbia enorme importanza nello svolgimento della nostra vita lo dice il fatto che grande parte della educazione consiste nel porre intorno all’alunno un complesso di circostanze e di fattori, che dovrebbero favorire lo sviluppo migliore dell’alunno stesso, come pure grande parte della disciplina ascetica consiste nella scelta e nella disposizione di condizioni ambientali utili alla formazione e all’esercizio della vita spirituale. Nel caso nostro l’ambiente è quello offerto dalla modesta e comune maniera di vivere d’una famiglia del popolo napoletano nella seconda metà del settecento e nei primi decenni dell’ottocento, perfezionato dall’educazione ecclesiastica di quel tempo e di quella città. Don Vincenzo Romano non è uscito da quell’area locale e morale; perciò la sua figura ne è tipica e rappresentativa.

E la ricerca dei coefficienti che qualificano tale figura ci fa facilmente scoprire delle visioni splendide e grandiose: Napoli è in grande forma a quell’epoca, il suo nome è europeo, e la sua vita religiosa è caratterizzata dalla presenza e dall’azione d’un’altra santa figura di primo ordine: Alfonso Maria de’ Liguori, che era nato quasi cinquant’anni prima di Vincenzo Romano, ma che gli fu contemporaneo per oltre trent’anni, nel periodo cioè in cui S. Alfonso irradiava i suoi insegnamenti di scrittore e di dottore, ed i suoi esempi di religioso e di Vescovo. È certo che il movimento di pensiero e di azione, a cui S. Alfonso dava origine in quegli anni e in quella regione, fece scuola anche per l’umile ed intelligente prete di Torre del Greco; e fu alta scuola, anche perché essa pure partecipe e fautrice del risveglio religioso e dell’ascetismo canonico del Clero napoletano di quegli anni. A chi obbiettasse che quegli anni e quelli del successivo periodo napoleonico non erano, sotto molti aspetti, favorevoli alla apparizione d’un fenomeno di santità ecclesiastica - basti pensare alle correnti gianseniste, alla politica anticlericale di Bernardo Tanucci, e ai bisogni di riforma morale e religiosa, di cui lo stesso S. Alfonso ci informa -, potremmo fare un’altra osservazione, ch’è proprio la lode migliore dei Santi rispetto all’ambiente, in cui si svolge la loro formazione e la loro attività; ed è quella che vede come il Santo, e nel nostro caso il Beato Vincenzo Romano, non solo personifica e porta a livello superiore quanto di bene l’ambiente possiede, ma reagisce a quanto di male o di misero l’ambiente gli offre e impone al costume corrente; perché egli sa risuscitare energie spirituali e morali dal fondo delle singole anime e dal cuore del popolo, che altri né supponeva esi-stessero né sapeva cavare.

L’osservazione non è soltanto fonte di ammirazione per il servo di Dio, che si è francato dai vincoli delle consuetudini invalse, credute inespugnabili, ma dev’essere anche lezione per noi, quando c’insegna che ogni ambiente, con la grazia del Signore e con la buona volontà, può essere fertile di santità: con ciò che ha di buono aiuta e conforta, con ciò che ha di avverso provoca a militante fortezza l’anima grande. E cioè ci ammonisce a non sopravalutare le condizioni d’ambiente, quasi fossero per l’anima forte, libera e cristiana indispensabili e determinanti: alla virtù, al bene, se positive, alla mediocrità o al vizio, se negative; esse sono certamente coefficienti molto importanti e spesso praticamente influenti e prevalenti sulla condotta della gente comune, non però su quella dell’eroe della virtù, che le domina e le personifica, se buone, vi resiste e spesso le supera e le trasforma, se cattive. La santità cioè fiorisce, se Dio aiuta, dappertutto; ed ogni ambiente le può giovare, ogni condizione di vita le può essere propizia, quando l’incontro delle due volontà, la divina e l’umana, vi provocano la vittoriosa scintilla della carità (cfr. Rom. 8, 35).

Ed è ciò che precisamente ammiriamo nel nuovo Beato: la sua è proprio una santità che scaturisce dal dialogo col suo ambiente: egli vi è nato, vi si è formato; egli lo assorbe, lo plasma in se stesso sul modello cristiano e sacerdotale, poi lo rieduca, lo evangelizza, lo santifica. Era infatti un prete, del paese, come ve ne erano tanti a quel tempo; un Sacerdote diocesano, ch’ebbe la fortuna di un’ottima educazione in Seminario, e che poi ritorna fra i suoi familiari e compaesani ad esercitare vari ministeri dapprima, poi l’ufficio di Parroco, per .oltre trent’anni, dal 1799 al 1831, anno della sua morte. Lo schema della sua vita sembra quello normale per un Sacerdote in cura d’anime. Dov’è l’aspetto straordinario proprio della santità?, dov’è l’aspetto esemplare che meriti la nostra imitazione e la nostra venerazione?

Per rispondere, dovremmo narrare la storia di questo buon curato e vedremmo quale sia il genere di perfezione proprio di chi si consacra alla vita pastorale; è il dono di sé per la salvezza degli altri. E poiché oggi tanto si parla di vita pastorale, vedremmo questo semplice prete di campagna venirci incontro, dalla terra del Vesuvio, per insegnarci qualche cosa di magnificamente attuale e universale. Che Vincenzo Romano, ad esempio, abbia prefisso a se stesso la massima di «fare bene il bene», indica quale esigenza di perfezione abbia dominato la sua vita. Vi sarebbe da parlare della sua vita interiore, della sua religione personale, del suo impegno allo studio, della sua austerità privata, del suo distacco dal denaro e dalle ambizioni onorifiche non ignote talvolta anche ai buoni sacerdoti, in una parola dello sforzo ascetico che domina tutto il corso dei suoi anni e che compenetra la continua proiezione di sé al servizio degli altri ed in gran parte ne risulta; si dovrebbe fare un accenno a certi bagliori mistici, che qua e là sfuggono dal segreto d’un’anima sempre tesa alle cose di Dio e sempre pronta ad esprimerne l’esperienza con gli accenti affettivi e sentimentali, propri del temperamento meridionale e della scuola alfonsiana.

Ma ciò che ora attrae la Nostra attenzione è il suo comportamento pastorale, cioè l’esercizio del suo ministero esteriore a vantaggio del prossimo; ma non potremo trascurare due previe osservazioni: che questo ministero esteriore si alimenta di vita interiore, ne trae le sue radici, le sue energie, i suoi impulsi, i suoi conforti; non è un mestiere profano, non è l’affanno di Marta, non è la dissipazione che svuota l’attivista d’una sua profondità personale; è carità che arde di dentro e che si’ accende nell’intimità del colloquio devoto e della meditazione pensosa e poi trabocca. E perciò (seconda osservazione), questo stesso ministero esteriore, mentre attrae il sacerdote che vi ha dedicato la vita e diventa per lui un obbligo assillante, lo spaventa e lo opprime nello stesso tempo, e quasi lo respinge, per il senso opprimente di responsabilità che porta con sé e per le enormi difficoltà, che sempre rappresenta e che, appena avvertite, mettono in evidenza la sproporzione tra i doveri da compiere e le forze disponibili, immensi i primi, povere e vacillanti le seconde. È il tormento di chi si consacra alla cura d’anime. Viene opportuna la parola di S. Agostino: «Niente è in questa vita, e specialmente in questo tempo, più difficile, più faticoso, più pericoloso» (Ep. ad Valerium, 21; PL 35, 88). Il Beato Vincenzo Romano provò anche lui la paura d’un ministero così impegnativo e responsabile com’è quello del Parroco; avrebbe voluto sottrarsi a tanto onere, ed ebbe a dire di sé: «Avrei voluto piuttosto la morte, che aggravarmi di questo sì pericoloso peso della cura d’anime; questa carica non si può accettare né per onore, né per interesse, o per altro fine; ma soltanto per volontà di Dio». Riscontriamo così in Lui una somiglianza con il Santo Curato d’Ars, anch’egli oppresso interiormente dalla responsabilità dei doveri pastorali, fino a tentare di fuggire dalla sua parrocchia. Abbiamo nominato S. Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars: sarebbe interessante notare molti altri aspetti di somiglianza fra quel santo parroco e questo, legati entrambi a eguali doveri, e entrambi straordinariamente abili ad esercitarvi, sia pure in forme e misure differenti, virtù analoghe e a ricavarne meriti somiglianti.

Troveremo così anche in Vincenzo Romano una grande profusione di parola di Dio; da quella sistematica, e non mai abbastanza raccomandabile, della catechesi, vera base della vita religiosa e profonda esigenza del tempo nostro, a quella esortativa e edificante (si dice che fosse perfino prolissa la predicazione del nostro Beato; ora forse anche la sua non lo sarebbe più!). Troveremo la premura antiveggente di far partecipare i fedeli alla celebrazione della S. Messa; un suo libretto dal titolo «la Messa pratica» ci dice come egli avesse l’intuito di quella necessità che l’assemblea dei fedeli preghi bene, preghi insieme e preghi coordinando pensieri e voci a quelli del Sacerdote celebrante, necessità la quale oggi è riconosciuta dalla dottrina della Chiesa e promossa dai movimenti liturgici.

Troveremo una carità, che si espande fuori del puro esercizio del culto, e si interessa e si affatica per tutti i bisogni umani privi d’altro soccorso: il Parroco a nulla è estraneo, tutti conosce, tutti conforta, tutti ammonisce, tutti benefica. Anzi la sua carità da individuale si fa sociale, da spirituale anche professionale ed economica (per ritornare subito morale e religiosa), se ciò è richiesto da quel bene delle anime, che per un Parroco è «suprema lex». Il Beato Vincenzo ci dà, a questo riguardo, un bellissimo esempio, quasi precursore della carità sociale della Chiesa ai nostri giorni, organizzando ed assistendo i pescatori di corallo, che a Torre del Greco erano e sono tuttora numerosi, laboriosi e bisognosi.

Così che egli merita che noi lo consideriamo, come si suol dire, «d’attualità», come esempio di virtù di cui il nostro tempo ha manifesto bisogno. E lo avranno caro, come Protettore e come modello, i fedeli tutti, ma in modo particolare i Sacerdoti, quelli diocesani specialmente, per i quali l’obbligo della perfezione cristiana non è soste-nuto dalla professione religiosa, ma è reclamato sia dalla loro dignità, sia dal loro ministero, e, quando questo sia esercitato con pienezza di carità, mediante il ministero stesso quella perfezione diventa possibile e grande. Ai Parroci soprattutto siamo felici di additare un loro Fratello in cielo; ad essi va, anche in questa occasione, il Nostro particolare ed affettuoso pensiero: possa il Beato mostrare loro la grandezza della loro missione; e pensando in quali difficili e modeste condizioni tanto spesso si svolge il loro ministero, ricorderemo loro che «non sono gli orizzonti geografici ad allargare quelli dello spirito, ma la vastità degli orizzonti dell’anima a dare anche ad un luogo minuscolo le dimensioni dell’universo» (Garofalo, p. 36). E voglia questo nuovo Beato loro mostrare che e come un Sacerdote in cura d’anime dev’essere santo; voglia lui sostenere i loro disagi, compensare le loro privazioni, fortificare il loro spirito di sacrificio e di disinteresse, consolare le loro pene, premiare le loro fatiche! Vada a loro con i Nostri voti la Nostra Benedizione.

Perché, Fratelli e Figli, è di Sacerdoti zelanti, è di Parroci santi che soprattutto abbisogna oggi la Chiesa: essa ne celebra uno nuovo in Paradiso, possa essa annoverarne una moltitudine nuova anche nel mondo presente!

 
Top
1 replies since 17/12/2011, 20:41   110 views
  Share